La bratva di Chicago - Copertina

La bratva di Chicago

Renee Rose

Capitolo tre

Lucy

Dopo una cena veloce in un bar vicino al lavoro, presi un taxi per tornare a casa. Avevo i piedi troppo gonfi anche solo per prendere in considerazione l'idea di prendere l'El e percorrere a piedi i pochi isolati fino a casa.

Uscii zoppicando dall'ascensore e aprii la porta dell’appartamento, lasciando cadere la cartella di lavoro all’interno. Era piccolo ma immacolato, perché avevo bisogno di ordine intorno per gestire tutto quello che c’era da fare. Accesi la lampada vicino alla porta. Avevo già tolto una scarpa prima di scorgere il bagaglio in piedi vicino alla porta.

Che cosa...?

Feci un respiro affannoso, riempiendo i polmoni per…

«Non urlare.» Lo sospirò a malapena. Solo un'intonazione bassa della figura in ombra sulla poltrona del soggiorno, presso alla finestra.

Il cuore mi palpitò e batté dolorosamente quando lo identificai: una gamba elegante incrociata sull'altra, sdraiato all'indietro come fosse a casa sua.

Distese la sua grande forma dalla sedia con grazia.

«C-cosa ci fai qui?» Afferrai lo schienale del divano con la punta delle dita per stabilizzare il giramento della stanza. Maledetta pressione.

Non rispose; si limitò a venire verso di me con un sorrisetto diabolico. Come se sapesse quello che stava per succedere e lo divertisse il fatto che io non lo sapessi.

Maledetto russo.

«Sono venuto a prendere ciò che è mio.» Avanzò lentamente.

Il pavimento smise di inclinarsi abbastanza da permettermi di togliere la mano dal divano e infilarla nella borsa ancora sulla spalla per trovare il telefono. Forse riuscivo a chiamare il 911…

Ravil mi prese il polso e portò via il telefono, mettendoselo in tasca.

O forse no.

Mi tolse borsa, che lasciò cadere sul pavimento vicino alla cartella.

Se fosse sembrato arrabbiato, se il suo tocco mi avesse ferita, sono sicura che avrei urlato. O almeno questo mi dicevo.

In realtà ero intrappolata nel suo sguardo azzurro, nei ricordi di come aveva comandato il mio corpo in modo così magistrale l'ultima volta che eravamo stati insieme.

Trovai indulgenza nei suoi occhi... non rabbia. Solo un accenno di pericolo.

Mi misi una mano protettiva sulla pancia e feci un passo indietro, verso la porta.

Mi prese di nuovo il polso e mi tirò indietro. Mi rimise il palmo sul divano. «Mi piacevi lì dove stavi, kotënok.»

Kotënok. Il soprannome che mi aveva dato.

Gattina.

Prese l'altra mia mano e la mise sulla spalliera del divano, e non ebbi più dubbi sul perché gli piacesse tanto la posizione. Era perfetta per una sculacciata. Premette sul dorso di entrambe le mani, accalcò il suo corpo sul mio da dietro. «Non muoverti» mi mormorò contro all’orecchio.

Mi ribellai all'istante, alzando e allontanando una mano.

«Mmm.» Fu paziente. Mi prese la mano e la fissò di nuovo. «Nessuna parola di sicurezza per te stavolta, gattina. Ma sarò delicato.»

Mi mise un braccio intorno alla vita e allargò la mano sulla mia pancia cresciuta. «Non avresti dovuto nascondermelo.»

Restai immobile, il respiro bloccato in gola.

L'aggressività di Ravil era trattenuta. Soave. Non era più minaccioso di un amico un po’ marpione, eppure non ero così sciocca da sottovalutarlo. Era sicuro di avere tutte le carte in mano, e finché non avessi saputo quali erano quelle carte dovevo essere cauta. Tracciò un cerchio lento sul pancione.

Non insultai la sua intelligenza facendo la finta tonta. Dicendo che non avevo saputo come contattarlo. Sapevamo entrambi che ci sarei arrivata.

Tenendo una mano sulla mia pancia, usò l'altra per sollevarmi l'orlo della gonna da dietro.

Indossavo calze autoreggenti, non per essere sexy ma perché i collant erano troppo caldi per luglio. Soprattutto per una donna incinta.

Sentii il respiro di Ravil quando li scoprì. «Cazzo» soffocò. «Per chi li hai indossati?»

Fui improvvisamente tentata di mentire. Di dirgli che c'era un altro. Che ero tornata insieme a Jeffrey, o magari che avevo incontrato qualcuno di nuovo. Forse questo avrebbe fermato le avance.

Solo che io non volevo fermare le avance. Erano ciò che mi spaventava meno di lui.

Si era già dimostrato un amante attento. Mi aveva dato i migliori orgasmi della mia vita.

E da allora non ero stata con nessun altro.

Quindi optai per la verità. «Sono più fresche delle calze normali.»

«Più fresche.» Praticamente fece le fusa in approvazione. Accarezzò con il palmo della mano la mia natica sinistra. «Sì. Dev’essere importante.» Mi sistemò la gonna del vestito sopra alla vita e mi allargò i piedi. Io barcollai, ancora sospesa su un tacco, e lui si chinò per sfilarmelo.

Come un moderno principe azzurro, solo che l’espressione fascinosa che esibiva era un po' più terrificante.

«Hai i piedi gonfi» osservò burbero. «Basta tacchi per te, gattina.» Lanciò la scarpa in fondo al corridoio.

Ero tentata di sfidare il suo diritto di darmi delle regole, solo che avevo paura di scoprire cos’avrebbe risposto. Certamente credeva di averne diritto.

Ed ero incline a credere che ne avesse.

La sua mano mi batté sul culo con uno schiaffo che mi sorprese.

«Ehi!» Mi rizzai e cercai di allontanare i fianchi, ma la sua presa intorno alla mia vita lo rese impossibile.

«Zitta, kotënok. È la punizione.» Riuscì a farla sembrare più una prelibatezza che qualcosa da temere. Ma d’altronde mi ero già sottomessa al suo dominio. Un altro schiaffo, stavolta sull'altra natica. Colpì forte, abbastanza forte che il punto in cui aveva piazzato il primo schiaffo iniziò a bruciare e pizzicare.

«Ravil» sussultai, e lui mi accarezzò le natiche appena colpite con il palmo.

«Mi piace sentirti dire il mio nome, adorabile Lucy. L'ultima volta non ci siamo detti i nomi… un vero peccato.» La mano lasciò il culo e mi preparai a un altro schiaffo. Arrivò, seguito da una stretta violenta e vorace.

«Ma ovviamente il peccato più grande è questo.» Mi accarezzò la pancia. «Non che tu abbia il mio maschietto, ma che tu volessi tenermelo nascosto.»

Mi vennero le vertigini nel sentire che sapeva che stavo per avere un maschio. La cosa supportò la teoria che mi avesse teso una trappola – nella quale ero caduta. Dannazione! Perché in ufficio, quella mattina, non avevo preso in mano la situazione?

«Mi dispiace» dissi.

«Non ti credo.» Il suo accento si fece più marcato. Mi schiaffeggiò di nuovo il culo, tre volte, forte, poi mi fece scivolare il raso delle mutandine giù fino alle cosce.

«Mi dispiace di averti offeso» mi corressi. Aveva ragione, non mi dispiaceva di aver cercato di tenergli nascosto il bambino. Desideravo ancora che non lo avesse scoperto.

E con buone ragioni, poiché ora ero oggetto della sua punizione.

Non che non ci fosse qualcosa di deliziosamente erotico e piacevole nella cosa. Soprattutto quando mi infilò le dita tra le gambe per farmele scorrere sulle pieghe straordinariamente bagnate.

«Potrebbe essere vero o meno, gattina.» Continuò a esplorarmi tra le gambe, facendo scivolare un dito lubrificato fino al clitoride e picchiettando.

Emisi un gemito affannoso. Non intenzionalmente: stavo solo cercando di espirare, ma emisi un suono sfrenato che lo fece brontolare di approvazione.

«Ma mi assicurerò che tu venga ben punita per l'offesa che mi hai arrecato.»

Tac, tac, tac.

Mi contorsi al tocco sul clitoride, che evocava qualcosa ma non a sufficienza.

«E credimi, gattina: se vuoi venire, meglio che fai come ti dico io.»

Mi batté forte il cuore, perché sapevo che non stavamo parlando solo di sesso. C'era un inconfondibile pericolo nella sua voce, anche se aveva solo minacciato di negarmi l’orgasmo.

«D-devi andartene ora» dissi, ma non mi spostai dalla posizione in cui mi aveva messa. Non mi ritrassi, non chiusi le gambe, non feci nulla che potesse dimostrare fisicamente che non volevo il suo tocco.

Perché io lo volevo, il suo tocco.

E con una certa disperazione, anche.

C’è da dire che gli ormoni della gravidanza mi avevano trasformata nella donna più arrapata e insoddisfatta dell'intero stato dell'Illinois. Trascorrevo le nottate col portatile sui porno e le dita tra le gambe, ma non ero mai sazia.

E incolpavo Ravil per il genere di porno. Sadomaso, preferibilmente russo. E potevo garantirlo, c'era un sacco di porno russo in circolazione. Non avevo mai avuto il minimo interesse per nessuno dei due prima di San Valentino.

Tac, tac, tac.

Piagnucolai.

«Me ne vado, gattina. E tu verrai con me.»

Iniziai a scuotere la testa, ma lui scelse quel momento per aumentare la pressione sul clitoride, facendolo girare lentamente con il polpastrello.

Piagnucolai di nuovo.

«I-io non vengo da nessuna parte con te» affermai.

Sapevamo entrambi che era una bugia. Non ero ancora sicura di come avesse intenzione di costringermi.

«Apri di più le gambe.»

Che ubbidissi diceva già tutto. Aveva tutto il potere lui. Non con le minacce, che ancora non aveva fatto anche se ero sicura che sarebbero giunte.

Ma con la magia delle sue dita.

Volevo di più.

Ne avevo bisogno.

Tanto, tantissimo.

Mi abbassò di più le mutandine, come se ne avesse bisogno. «Toglile» ordinò. La voce era ruvida e gutturale. Non era indifferente a quello che mi stava facendo.

Con il respiro che arrivava in flussi irregolari, tolsi con un calcio le mutandine e ripresi la posizione.

Ravil mi schiaffeggiò tra le gambe.

Sussultai, cercando immediatamente di chiuderle. Potevo anche lasciargli sculacciare il culo, ma la figa era altro. Gonfissima e scivolosissima adesso, con i miei succhi. In modo imbarazzante. Era così ogni volta che mi masturbavo da quando ero rimasta incinta.

Troppo testosterone del bambino, immagino.

«Aprile.» Una parola, molto ferma.

Lo feci solo perché volevo che continuasse. Magari farmi sculacciare la figa non mi era piaciuto, ma era servito a rendermi più bisognosa. Più disperata.

Mi schiaffeggiò di nuovo lì. E di nuovo.

«Gattina cattiva. Mi divertirò a punirti.»

Arrossii per il calore; il pulsare tra le mie gambe mi faceva impazzire.

Smise di sculacciare e strofinò di nuovo le dita sulla mia umidità. «Allora… se vuoi che poi concluda fino a farti urlare il mio nome, fai esattamente come dico.»

Il mio battito accelerò.

Tolse le dita, mi schiaffeggiò di nuovo il culo da entrambi i lati e mi tirò giù la gonna sulle natiche nude e doloranti. «È il momento di andare. Verrai a vivere con me in centro per il resto della gravidanza. In ufficio dirai che sei a letto e non puoi più rientrare. Ti permetterò di mantenere il lavoro e le amicizie a distanza, purché non menzioni mai me né la tua situazione. Ti controllerò.»

Restai in piedi ma mi aggrappai allo schienale del divano con una mano per mantenere la stabilità. «E se non lo facessi?»

La domanda che tanto temevo.

«Allora ti porterò in Russia fino alla nascita del bambino. Senza alcuna garanzia di un tuo ritorno sana e salva quando sarà finita.» Tralasciò completamente di dirmi se il bambino sarebbe rimasto con me quando – se – fossi tornata, quindi immaginai che la risposta fosse no.

La stanza girò.

Dovetti dargli l’idea di essere sul punto dello svenimento, perché mi prese tra le braccia, in pieno stile luna di miele. «Vieni, non c'è bisogno di arrabbiarsi. Mi assicurerò che tu abbia ogni comodità e necessità per la gravidanza.» Mi portò alla porta d'ingresso e l'aprì. «Sono linee guida facili da seguire.»

Dietro la porta c'era un gigante. Più un orso che un uomo, con ampie spalle alla Paul Bunyan, barba trasandata e occhi scuri e penetranti.

Urlai appena.

«Ssh. È Oleg. Ti accompagnerà in macchina».

«Non ho bisogno di passaggi » dissi velocemente. Non lo trovavo minaccioso di per sé, ma era enorme e sconosciuto. E non mi piaceva che Ravil mi consegnasse ad altri.

Mi mise giù. «Uscirai con me in silenzio? Nessun avviso o allarme. Nessun problema da parte tua?»

Mi guardai i piedi avvolti nelle calze. «Mi servono delle scarpe.»

«Niente tacchi» disse Ravil con fermezza. Puntò la testa verso Oleg e disse qualcosa in russo al gigante, che entrò. Restammo in silenzio nel corridoio del mio palazzo. La mia mente corse per tutto il tempo.

Cos’avrei fatto se fosse passato un vicino? Avrei cercato di chiedere aiuto nonostante l'avvertimento di Ravil?

No. Credevo alla minaccia.

Se mi avesse portata in Russia, avrei avuto ancora meno via di fuga. Non parlavo la lingua. Non conoscevo nessuno che mi potesse aiutare. E le probabilità di riuscire a scappare sarebbero state praticamente nulle.

Oleg ritornò portando contemporaneamente tutte e quattro le mie valigie, insieme alla borsa e alla cartella da lavoro in pelle.

Ravil si chinò per aprire una delle valigie; sembrava sapere esattamente dove guardare e tirò fuori le infradito. Le lasciò cadere a terra per me. Oleg prese la valigia e marciò verso l'ascensore senza dire una parola.

Cercai di calzare i piedi nelle ciabatte con le autoreggenti ancora addosso, ma non riuscivo proprio a infilare la fascetta tra le dita dei piedi.

«Aspetta, gattina.» Ravil mi sorprese accovacciandosi davanti a me per trascinare giù una calza. Mi chinai per aiutarlo con la seconda e lui mi spinse indietro, inchiodandomi il bacino contro al muro. «Non mettermi fretta.» Il suo accento si fece più denso. «Mi stavo godendo la vista.»

Mi srotolò la seconda lungo la gamba, oltre il piede, ma tenne saldamente in posizione la mano che mi bloccava i fianchi contro il muro. «Che gambe lunghe…» Afferrò la parte posteriore del mio ginocchio per tirarlo leggermente in avanti e baciarmi l'interno coscia.

I brividi corsero lungo la gamba dritti al mio sesso già bisognoso. Fece scivolare la mano sulla parte interna della coscia per sfiorarmi la figa nuda, poi mi sollevò la gonna e portò il suo viso tra le mie gambe.

Gemetti prima ancora del contatto con la sua lingua . «Ehm. Ravil.»

«Così, gattina. Di’ il mio nome.»

La figa si strinse. Ero infastidita dal mio stesso bisogno. Non avrei dovuto implorare quello lì, specialmente per il sesso. Non meritava la mia resa. In sostanza mi stava portando via dalla mia vita, e solo Dio sapeva cos’avesse intenzione di farne di me e del bambino una volta nato.

Ma la punta della sua lingua girò intorno al clitoride e gemetti di nuovo.

Ravil mi afferrò entrambe le cosce e si girò di nuovo ma poi si allontanò, lasciandomi cadere la gonna e alzandosi in piedi; i miei succhi gli lucidavano le labbra. Li leccò. «Hai un sapore persino migliore di quanto ricordassi.»

Quelle parole si insinuarono sotto le mie difese. Forse era una cosa che diceva a tutte, ma mi piaceva venire a sapere che potesse aver passato tanto tempo a pensare a me quanto io ne avevo passato pensando a lui. Ne avevo dubitato. Ero una maldestra principiante che aveva appena scoperto cosa le piaceva mentre lui era ovviamente un dominante esperto, a suo agio con le sue capacità e la sua sessualità.

Eppure quella notte mi aveva detto che si sentiva diverso nei miei confronti. Sei qualcosa di speciale, mi aveva detto. E avevo voluto credergli. Non abbastanza da proseguire oltre a quella notte. Giusto per conservare i ricordi dell'uomo che mi aveva fatto dono di quel bambino.

Cosa che avrei voluto tanto disperatamente da Jeffrey, ma che lui non mi avrebbe mai dato.

Ma ora stava prendendo il sopravvento la frustrazione sessuale. Avevo voglia di prenderlo a calci per avermi presa in giro. Era proprio crudele, considerando che gli ormoni della gravidanza mi facevano quasi venire la febbre dal bisogno.

Infilai i piedi nelle infradito e spostai i capelli lunghi andando all'ascensore. Oleg era già sceso quindi ci volle un attimo perché tornasse, e io rimasi lì, a fissare le porte d'acciaio invece di guardare l'uomo al mio fianco.

«Non puoi tenermi prigioniera» dissi infine, anche se era solo un pio desiderio.

«Non sei prigioniera» fece lui gentilmente. «Se un’ospite speciale. Devo tenerti vicina, così posso proteggerti ed essere sicuro che tu sia molto ben curata. Trasporti un carico prezioso, naturalmente.»

Gli lanciai un'occhiata. «Vengo a malincuore. Controvoglia.»

Contrasse le labbra. «Prendo nota.»

Dannazione. Non avrei dovuto trovare quel botta e risposta così sexy.

Dovevano essere gli ormoni a parlare.

Perché il mio peggior incubo, quello sull’avere un bambino con un membro della bratva russa, si stava avverando.

E sembravo incapace di fermarlo.

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