La bratva di Chicago - Copertina

La bratva di Chicago

Renee Rose

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Chapter
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18+

Summary

Prossime uscite - Tieni d'occhio la sezione "Nuove uscite"!

L'adorabile avvocatessa mi ha nascosto qualcosa.

Un bambino che porta in grembo dalla notte di San Valentino.

La notte in cui siamo stati abbinati dalla ruota della roulette.

Non mi ha mai contattato. Voleva tenermi all'oscuro.

Sta per scoprire cosa succede quando ostacoli un capo della bratva.

La punizione è già organizzata. Sequestro fino alla nascita.

E userò quel tempo per ottenerne la resa.

Perché non ho solo intenzione di tenere il bambino…

ho intenzione di fare di sua madre la mia sposa.

E sarà molto meglio per entrambi che lei sia disposta.

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174 Chapters

Capitolo uno

Il direttore di Renee Rose. La bratva di Chicago, Libro 1

Lucy

Forse era ora di smettere di indossare i tacchi. O magari di sceglierne di più bassi.

Fresca dell’ennesima vittoria in tribunale, entrai nell'ascensore affollato. Nascosi il mio stupore, grazie ai piedi gonfi infilati nei miei tacchi a spillo da capo con le palle, quelli che usavo per affermare la mia anzianità, la mia posizione e il dominio generale in aula e, cosa più importante, all'interno dello studio di mio padre.

Quasi sussultai di nuovo quando vidi Jeffrey nell’ascensore.

Lanciò un'occhiata al mio ventre gonfio, poi incrociò il mio sguardo con un’aria di tormentato conflitto negli occhi grigi.

Non era suo.

Ci eravamo lasciati sei mesi prima che avessi a Washington la scappatella fuori dal comune che aveva portato al mio nuovo stato.

«Lucy» disse. Era un’affermazione, non un'apertura. Un riconoscimento degli otto anni che avevamo sprecato insieme.

Trattenni un sospiro. «Jeffrey.»

Per fortuna c’erano altre quattro persone, quindi mi misi accanto a lui guardando alle porte mentre l'ascensore saliva.

«Come sta tuo padre?»

Oh, cavolo. Lo stavamo facendo davvero?

«Come al solito.» Feci lo sguardo di convenienza richiesto dalla situazione.

«Mi dispiace»

«Sì. Beh, è così e basta.»

Affrontavo ogni giorno legali ostili, nello studio e in aula. Potevo gestire una corsa in ascensore con il mio ex. Ma il misto di pietà e rimorso che aveva nello sguardo rese il mio blazer Lafayette 148 New York, quello con un bottone teso sopra la pancia, improvvisamente stretto e caldo in modo insopportabile.

D’altronde qualsiasi blazer a luglio e in gravidanza sarebbe stato insopportabile.

Tuttavia avrei voluto che fosse in grado di gestire la sua merda emotiva e che la smettesse di fare della mia pancia in crescita una fonte di conflitto interno. Immaginai che si stesse chiedendo come sarebbe stato se fosse stato suo. O forse si sentiva in colpa per il fatto che stavo facendo questa cosa del bambino da sola perché lui non si sarebbe mai impegnato.

Il fatto era che ero andata avanti senza di lui.

Fine della storia.

L'ascensore si fermò al piano del suo studio di architettura ma esitò, spostando il braccio davanti ai sensori ma senza scendere. «Stasera andiamo a bere qualcosa al The Rocket, se vuoi unirti a noi» disse, poi fece una smorfia, probabilmente rendendosi conto che bere era fuori questione considerando la piccola vita che mi cresceva dentro.

«Un'altra volta» dissi col tono di voce disinteressato che avrebbe dovuto trasmettergli un mai, ma in modo più garbato. Anch'io soffrivo di sentimenti contrastanti su Jeffrey.

O forse ero solo terrorizzata dall’idea di non riuscire a cavarmela da sola.

Alzai la testa, mantenendo la postura che assumevo in aula finché le porte non si chiusero. Poi divenne più facile mantenere la posa quando le porte si aprirono al mio piano e mi avviai con passo sicuro verso la scrivania in comune della segretaria.

«Primo appuntamento?» Di solito conoscevo l’agenda senza che mi dicessero niente. Ero il tipo di persona con la proverbiale mente a trappola d'acciaio, ma gli ormoni stavano giocando anche con la mia memoria. Mi sentivo confusa. Con gli angoli smussati.

E ne odiavo la vulnerabilità e la mancanza di controllo.

«Il primo appuntamento è con Adrian Turgenev, il giovane accusato di incendio doloso alla fabbrica di divani l'11» mi disse Lacey, la segretaria.

Giusto. Mafia russa, o bratva, come la chiamavano. Il cliente era stato segnalato da Paolo Tacone, uno dei miei clienti facenti parte della famiglia criminale italiana.

Buffo: i russi e gli italiani erano in combutta adesso? Non mi importava. Non era compito mio conoscere i veri dettagli della loro attività.

Il mio lavoro consisteva solo nel difenderli con i fatti raccolti dalle forze dell'ordine.

Tuttavia dovevo ammettere la leggera inquietudine che mi solleticava la nuca al coinvolgimento con i russi. Non per una posizione di superiorità morale nei confronti dei clienti. Non si poteva fare l’avvocato difensore in groppa a quel cavallo.

Era solo a causa sua.

Padron R, il sexy criminale russo che avevo incontrato a Washington DC a San Valentino.

L'inconsapevole donatore di sperma per la mia avventura nella genitorialità da single.

Ma lui era a Washington DC. Probabilmente non aveva nessun collegamento con la cellula di Chicago.

Aprii la porta dell’ufficio ed entrai, quindi presi il fascicolo su Adrian Turgenev per rivedere gli appunti presi dalla segretaria. Mi accomodai alla scrivania prima di levarmi i tacchi da dieci centimetri in cui mi stavano affondando i piedi gonfi.

Signore. La gravidanza non era una passeggiata. Soprattutto a trentacinque anni.

«Lucy, ho sentito che stai per occuparti di una nuova fazione della criminalità organizzata.»

Cercai di non socchiudere gli occhi su Dick Thompson, uno dei soci di mio padre dello studio. Lo conoscevo da quando ero una bambina, e avevo dovuto lavorare molto duramente per impedirgli di trattarmi ancora come tale.

«Hai sentito bene.» Alzai le sopracciglia per chiedere il suo punto di vista.

Scosse la testa. «Non so se sia una buona idea. Abbiamo passato molte ore a riflettere sull'opportunità di affrontare i Tacone ai tempi in cui tuo padre rappresentava Don Santo o come si chiamava. Non possiamo permetterci di far affondare lo studio con una cattiva reputazione.»

Ricordavo. Avevo preso a lavorare lì nelle vacanze estive e invernali fin dai miei sedici anni. Ricordavo anche quello che aveva detto mio padre all’epoca.

«Lo studio è famoso perché difende assassini e criminali. Molto semplicemente, la criminalità organizzata garantisce un ritorno monetario.» Mossi le sopracciglia con un sorrisetto freddo.

Non era altezza morale. Era Dick che faceva lo stronzo. Mi provocava apposta. L'aveva sempre fatto. Avevo dovuto lavorare il doppio per dimostrare di meritarmi il posto nello studio, sia in quanto donna sia perché mio padre mi aveva aiutata a ottenerlo. Ora in corso c'era una sorta di campagna alle mie spalle riguardo al fatto di farmi diventare socia. Dick stava costruendo un caso contro di me. O forse contro mio padre. Probabilmente contro entrambi.

Saremmo stati a vedere.

Come donna in un business spietato in uno degli studi più spietati, mi aspettavo sempre di avere un pugnale a pochi centimetri dalla schiena.

Mi squillò il telefono.

«Probabilmente è lui. Devo andare» dissi a Dick mentre infilavo i piedi nelle scarpe da ginnastica e rispondevo.

«Il signor Turgenev e il signor Baranov sono qui per vederti.»

«Falli entrare, per favore.»

Mi alzai e feci il giro della scrivania, pronta a stringere mani.

Avrei dovuto esservi preparata, però.

Avevo avuto quella sensazione fastidiosa. Tuttavia, quando la porta si aprì e vidi il viso bello e brutale dell'uomo, la stanza mi piombò addosso, si abbassò e per un momento divenne nera.

Era lui. Padron R. Il mio partner del Black Light, il club sadomaso di Washington.

Il padre di mio figlio.

Ravil

«Lady Fortuna.»

Presi il gomito dell'adorabile avvocatessa bionda mentre ondeggiava. Ero così scioccato di trovarla lì, proprio a Chicago, che all'inizio non riuscii a notare la causa del suo svenimento.

Poi vidi. La sua pancia sporgeva indelicatamente sotto al bottone della giacca firmata.

La pancia incinta.

Feci i conti molto velocemente. La notte di San Valentino. Preservativo rotto. Cinque mesi fa. Sì, il pancione era della misura giusta perché fosse mio. Ma avrei anche potuto evitare il calcolo: era tutto lì, sul suo viso incolore.

Stava per avere il mio bambino. E non voleva che lo sapessi.

Bljad’.

Io avevo pure pensato molte volte alla nostra notte insieme. Io ero pure tornato al club di Washington a cercarla, senza fortuna. Ma i suoi pensieri su di me non erano stati così affezionati.

Sicuramente non era felice di vedermi. Anzi, sembrava decisamente allarmata.

Come avrebbe dovuto essere.

Feci un respiro misurato.

«Fortuna davvero» mormorai, lasciandole il gomito mentre si riprendeva rapidamente: la sua maschera da principessa di ghiaccio scattava saldamente al suo posto, su quell’adorabile viso.

Lady Fortuna era il nome che aveva scelto all'evento con roulette dove l'avevo incontrata. Finora non avevo saputo il suo vero nome. Né che vivevamo nella stessa città.

«Signor Turgenev.» Offrì una mano sottile ad Adrian, che si piegò leggermente mentre la stringeva, intimidito dalla sua presenza. «E signor Baranov, giusto?»

«Chiamami Ravil.»

O padrone, come l'ultima volta che siamo stati insieme.

I suoi occhi marroni scivolarono di nuovo sul mio viso. Era ancora più bella di quanto ricordassi. La gravidanza, con i suoi chili in più, le aveva ammorbidito un volto già adorabile. Aveva un bagliore radioso.

«Lieta di conoscervi. Prego, sedetevi.» Indicò le sedie di fronte alla scrivania.

«Ci è stata caldamente raccomandata, signora Lawrence.» Mi sedetti e la osservai mentre rimescolava le carte del fascicolo. La mano le tremava leggermente. Quando vide che la stavo guardando, lasciò subito cadere i fogli, alzando di scatto la testa e fissando Adrian con sguardo scaltro.

«Allora… è accusato di incendio doloso aggravato. Presumibilmente ha bruciato la West Side Upholstery, dove lavorava. La cauzione è stata fissata a centomila ed è stata pagata dal signor Baranov.» Mi lanciò un'occhiata, poi tornò a concentrarsi su Adrian. «Mi dica cos’è successo.»

Adrian alzò le spalle. Era stato uno degli ultimi a unirsi al mio gruppo. L’accento era ancora forte, malgrado richiedessi di parlare tassativamente solo la lingua del posto. Lo pretendevo da tutti i miei uomini, perché era il modo più rapido per imparare.

«Lavoro alla fabbrica di divani, sì. Ma non so niente dell'incendio.»

«La polizia ha trovato del liquido per accendini sulla sua uniforme.»

«Ho fatto il barbecue dopo il lavoro.»

Certo che l'aveva fatto. Subito dopo aver fatto irruzione nella casa di Leon Poval, sperando di ucciderlo a mani nude. Avendo trovato l'appartamento vuoto, per consolarsi gli aveva bruciato la fabbrica.

Ovviamente era poco convincente, ancora sulla difensiva dopo l’interrogatorio della polizia. Non gli dissi di agire diversamente. Non era mia abitudine rivelare le carte prima che venissero scoperte, anche se lei lavorava per noi.

Ero anche molto meno interessato al caso di Adrian ora che stavo cercando di capire cosa stava succedendo alla mia bellissima avvocatessa. Perché non me l'aveva detto?

«È stato assunto solo la scorsa settimana?»

«Da.»

Gli lanciai un'occhiata.

«Sì» si corresse.

«Prima lavorava per il signor Baranov?» guardò nella mia direzione. «Come... ingegnere strutturale?»

Adrian fece di nuovo spallucce. «Sì.»

«Perché ha accettato un posto a salario minimo in una fabbrica di divani quando ha studiato da ingegnere?»

«Mi interessa costruire mobili.»

Lucy si sedette; un barlume di fastidio le attraversò il viso. «Sarò maggiormente in grado di aiutarla se mi dice la verità.» Guardò nella mia direzione, come in cerca di un sostegno. «Conosce il segreto professionale tra avvocato e cliente? Tutto ciò di cui discutiamo sul suo caso rimarrà confidenziale e non potrà essermi imposto di rivelarlo in tribunale.»

Non feci nulla per intercedere. Quello era il suo lavoro. Poteva lavorare per i miei soldi.

Adrian le lanciò uno sguardo annoiato.

Sbuffò. «Quindi quella sera non è tornato in fabbrica dopo il lavoro? O non è rimasto lì fino a tardi?»

Adrian scosse la testa. «Niet… no.»

Continuò a fargli domande, prendendo appunti e studiando sia lui sia me. Rimasi in silenzio. Lasciò che chiedesse e si preoccupasse.

Stavo già facendo i miei piani. Nel pomeriggio avrei avuto bisogno di scoprire tutto quello che c'era da sapere su Lucy Lawrence. E poi avrei saputo esattamente che direzione prendere con lei.

«Probabilmente posso patteggiare confermando la dolosità dell’incendio. Comporta dai tre ai sette anni di reclusione invece che dai quattro ai quindici per le aggravanti.»

«No» intervenni. «Si dichiarerà non colpevole. Per questo abbiamo ingaggiato i migliori per rappresentarlo.»

Non sembrò sorpresa. «Ok. Ho bisogno di un acconto di cinquantamila dollari, da pagare prima di presentare la richiesta. E avrò bisogno di altro su cui lavorare, se vogliamo vincere la causa.»

Mi alzai, segnando la fine dell'incontro. «Verserò i soldi oggi stesso e discuteremo ancora un po' degli eventi. Grazie, avvocatessa.»

Si alzò e fece il giro della scrivania. I suoi tacchi alti mi avrebbero gridato fottimi se fossero stati rossi, ma essendo color nude gridavano più un ~ti scoperò~. Soprattutto il suo pavoneggiarsi, come si librasse ad altezze incredibili. Ero sicuro che come avvocatessa era uno squalo. Lo aveva detto Paolo Tacone.

La gravidanza non aveva fatto nulla per addolcire gli spigoli della sua imponente statura. Se non altro, la rendeva ancora più simile a una dea. Una forma femminile da adorare e temere.

Tranne per il fatto che sapevo che era lei a preferire di essere dominata.

Immaginavo che fosse un segreto che non condivideva con molti. Non si era dimostrata in grado di sottomettersi, quando l'avevo posseduta. Se da allora non l’aveva più fatto, forse io ero l'unico ad averla dominata.

Pensierino che non avrebbe dovuto farmelo venire duro, e invece…

L’avrei dominata di nuovo.

Mi aggiustai il cazzo all'idea, e il suo sguardo cadde sul mio inguine. Parte della sua compostezza regale svanì. Un rossore le colorò il collo e la pelle visibile nello scollo a V aperto della costosa camicetta.

Le presi la mano quando me la offrì, e la strinsi, ma non la lasciai andare. Il suo intelligente sguardo bruno si intrecciò con il mio, e io la tenni stretta.

Il suo respiro divenne irregolare e si fermò.

«Adrian, aspettami nel corridoio. Arrivo subito.» Adrian se ne andò e io chiusi la porta dietro di lui, tenendole ancora la mano.

Gli occhi le si allargarono leggermente. Riprese a respirare con un piccolo sussulto mentre tirava via la mano come se l'avessi scottata. «Ravil.»

Un pizzicore mi attraversò al suono del mio nome sulle sue labbra. Perché lo disse come se lo rivendicasse per sé stessa. Come se anche lei fosse pentita dell'assenza di dettagli personali dopo il nostro incontro.

Ma era impossibile. Se stava portando in grembo mio figlio, aveva tutte le ragioni, il diritto e la responsabilità di contattare il Black Light e richiedere le mie informazioni personali. Per chiamarmi e informarmi.

E non lo aveva fatto. Il che significava che non voleva sapere il mio nome.

«Hai qualcosa da dirmi, Lucy Lawrence?»

«No» interruppe lei, voltandosi; il suo atteggiamento professionale in pieno controllo.

La presi per un braccio, e lei tornò indietro come un elastico. La lasciai immediatamente quando mi fulminò la mano con lo sguardo.

«Avresti proprio dovuto chiamare.» Rivolsi alla sua pancia uno sguardo acuto.

Si tirò su più dritta, i muscoli della parte anteriore del collo le si irrigidirono. «Non è tuo» sbottò mentre le si arrossava il viso. Le sue pupille erano piccoli punti di paura.

La bugia mi colpì dritto al petto. Avevo ragione. Non voleva che sapessi dell'esistenza del bambino.

Alzai la testa. «Perché mentire?»

Anche il collo e il petto le si arrossarono, ma mantenne la voce bassa e uniforme come la mia. «So cosa sei, Ravil. Non credo che la tua…» si schiarì la voce per dare enfasi «professione si presti alla paternità. Non chiederò il mantenimento. Tu non chiedere di vederlo. Non farmi dimostrare in aula perché non sei adatto a fare il genitore.»

Il mio labbro superiore si arricciò alla minaccia. Ero un uomo che aveva raggiunto i vertici dell’organizzazione della città pensando velocemente e senza mettere in mezzo le emozioni. Di solito non mi offendevo. Di solito non prendevo le cose sul personale.

Ma stavolta era tutto fottutamente personale. Lucy Lawrence mi riteneva inadatto a fare da genitore a mio figlio? Pensava di tenermi lontano dal bambino?

Che se ne andasse a fanculo.

Le rivolsi un sorriso che prometteva vendetta. «Non ti preoccupare, avvocato. Non lo chiederò.»

Me lo prenderò.

«Non vedo l'ora di rivederti.» Impregnai quelle parole di tutto quanto – allusioni e avvertimenti – e lei colse tutto.

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