Colui che guarì il mio cuore - Copertina

Colui che guarì il mio cuore

Tinkerbelle Leonhardt

Amicizia

HARPER

Accompagnare Levi nella sua nuova classe era stato difficile per me, ma lui si era presentato subito, da piccolo mostriciattolo impavido qual era.

Ero sempre rimasta sorpresa della sua sicurezza di sé, perché sapevo con certezza che non avesse preso il suo carisma da me. Il piccoletto mi era di ispirazione in tanti modi.

Ero anche felice che il fatto di essere lì gli permettesse di vedere come ci si sente ad avere una figura maschile intorno.

Lo zio Clade si era offerto di andare a prenderlo ogni giorno e di prendersi cura di lui mentre io ero al lavoro.

Una baby-sitter sarebbe stata costosa e avere mio zio che si occupasse di lui oltre l'orario significava avere più soldi in banca e un futuro più roseo per mio figlio.

Quando arrivai al negozio Outdoor and Adventure, nel centro della città, fui subito accolta da facce amichevoli.

Il proprietario, il signor Johnson, era un amico di poker di mio zio, quindi mi aveva assunta senza farmi alcun colloquio o vedere un curriculum, ritenendo sufficiente la parola di un giocatore d'azzardo ubriaco.

Risi tra me e me, pensando al fatto che esistessero ancora le piccole città come Clarkson Glades.

"Ahhh... tu devi essere Harper Maddox. Sembri un po' smarrita".

Gli strinsi la mano con entusiasmo. "Sì, è così ovvio?"

"Non ci sono molte facce nuove da queste parti e il tuo guardarti intorno era un indizio evidente che non avessi idea di dove andare".

Risi. "Nota per il futuro: non sembrare così fuori posto".

Lui sorrise a sua volta. "Tuo zio era davvero entusiasta del tuo arrivo qui, quasi mi ha rincoglionito, parlando di tuo figlio Levin".

Ridacchiai. "Leivon. Beh, Levi è il suo soprannome e sì, lo zio è sempre stato un uomo incredibile. Sono molto fortunata".

Il signor Johnson scoppiò in una risata sonora. "Mi dispiace, Levi. Ho smesso di ascoltare Clade dopo un po' di tempo che mi fregava i soldi. Abbiamo una nuova spedizione che deve essere disimballata, valutata e sistemata. Puoi mettere la tua borsa negli armadietti, così cominciamo".

Il signor Johnson sembrava un uomo molto in forma. Aveva ancora una folta chioma di capelli castani che avevano appena iniziato a ingrigirsi, occhi azzurro cielo e una struttura snella.

Si vedeva che era un amante della vita all'aria aperta, il che si addiceva alla sua attività.

Quando guardai l'orologio, sentendo il mio stomaco brontolare, vidi che era quasi l'una. Anche il signor Johnson se ne accorse.

"Scusi", arrossii.

"Gesù, che razza di mostro nascondi, lì dentro?" Ridacchiai mentre anche lui guardava l'orologio. "Accidenti, non c'è da stupirsi che tu stia morendo di fame, avrei dovuto almeno darti una tregua a quest'ora, scusa ragazza".

"Non c'è problema, io..." Le mie parole furono completamente interrotte dalle forze dell'ordine locali, che entrarono e si posizionarono dietro il mio capo.

I miei occhi caddero immediatamente sull'esemplare divino che si trovava alle spalle del poliziotto più anziano. La sensazione più strana che avessi mai provato mi travolse, come se fossi stata temporaneamente risucchiata in un tornado.

Il cuore mi pompava rapidamente nel petto, avevo perso l'idratazione in bocca e un sottile profumo di quercia misto a pioggia avvolgeva l'aria.

Era alto, direi più di un metro e ottanta, con una corporatura muscolosa. Potevo vedere il rigonfiamento delle braccia e la tenuta della camicia sul petto. Aveva i capelli neri e a punta, ma corti dietro e sui lati.

Quando alzò gli occhiali da sole per metterli sopra la testa, per poco gemetti, mentre le sue iridi blu zaffiro percorrevano tutto il mio corpo, facendo sciogliere non solo la mia pelle sotto il suo sguardo ardente.

Una raffica di pensieri inappropriati invase la mia mente iperattiva.

"Harper, stai bene?" Mi domandò il signor Johnson. Mi limitai a inclinare la testa verso gli agenti che gli stavano dietro, e lui si girò, sorpreso. La verità era che in quel momento non riuscivo a parlare, mi stavo trattenendo a stento.

"Cazzo, da quanto tempo siete lì?" Chiese all'uomo più anziano.

"Siamo appena entrati", rispose lui con voce burbera, mentre si stringevano la mano.

"Ah, Fitz, questa è la nipote di Clade, Harper, si è appena trasferita in città. Harper, questo è lo sceriffo Fitzpatrick e lui è suo figlio, l'agente Spencer".

Allungai la mano con un sorriso caldo e accogliente, nonostante il mio battito fosse accelerato e sentissi le ginocchia deboli. Entrambi me la strinsero con una stretta.

Quando io e Spencer entrammo in contatto, il respiro mi si bloccò in gola. Un'ondata di quello che sembrava quasi un orgasmo mi attraversò dalla testa ai piedi sotto la superficie della pelle.

Sentii un fiotto di liquido inumidirmi le mutandine, mentre cercavo disperatamente di scacciare i pensieri osceni dalla mia testa per poter agire in modo appropriato in quella situazione.

"Piacere di conoscervi. Signor Johnson, ora vado a fare la mia pausa e vi lascio soli". Feci per passare davanti a loro, ma poi mi fermai. "Ehm, signor Johnson? Dove devo andare?"

Lui rise. "Oh diavolo, ragazza, sei proprio una forestiera..."

"C'è una bella trattoria, all'angolo. Posso mostrartela, se vuoi". Il timbro baritonale e profondo di Spencer mi colpì, facendo indurire i miei capezzoli, mentre l'eccitazione si diffondeva nel mio sistema nervoso.

"Ah... n-no, va bene, sono sicura che voi signori siate occupati. Io..."

"Figliolo, accompagna la signorina da Patty", ordinò Fitz, voltandosi di nuovo e concentrandosi sul signor Johnson.

"Fai una pausa di quarantacinque minuti, Harper, mi sono preso i tuoi quindici minuti di stamattina", mi disse il mio nuovo capo.

"Grazie, signore".

Mi diressi verso la porta d'ingresso, seguita a ruota dal giovane ufficiale, ma poi mi resi conto di una cosa e mi fermai. Improvvisamente, Spencer mi venne addosso con un "Oooh! Ma che..."

"La mia borsa", tagliai corto, ignorando l'improvviso impulso di appoggiarmi a lui. "Io... devo prendere la mia borsa".

La sua mano si sporse e mi afferrò la parte superiore del braccio. Il contatto mi fece quasi mugolare. "Non ne hai bisogno", affermò.

"Ma ho bisogno di..."

"No, ci penso io a questo giro".

"Ma ho bisogno di soldi", protestai.

"No, ci penso io", rispose di nuovo, in tono categorico.

"Perché? Non mi conosci nemmeno". Sentii le sopracciglia alzarsi per la curiosità.

"Chiamalo un gesto di... benvenuto, a Clarkson Glades". Spencer sorrise, abbassò gli occhiali da sole per coprire i suoi occhi inebrianti e passò oltre.

Era come se fosse insensibile all'improvvisa e drammatica aria che si respirava intorno a noi, o forse ero semplicemente io. Il fatto che il mio corpo reagisse in quel modo era imbarazzante.

"Non devi farlo per forza", lo supplicai, mettendomi dietro di lui.

Non disse nulla durante la straziante camminata verso la tavola calda, dopodiché mi aprì la porta per entrare. Borbottai i miei ringraziamenti e mi diressi verso un tavolo.

"Spence, come stai, figliolo? Cosa ci fai qui?"

"La nipote di Clade si è trasferita in città e aveva bisogno di pranzare. Papà mi ha detto di portarla qui". Gli occhi di un'anziana donna si posarono su di me, mentre io rigiravo nervosamente un tovagliolo tra le dita.

"Bene, siediti. Vi porto i menù".

Mi raggiunse al tavolo da quattro, ma invece di sedersi di fronte a me, si sedette accanto. Sentii una forte zaffata della sua colonia, di quercia e di pioggia. Mi chiesi se avesse lo stesso sapore.

"Allora, perché ti sei trasferita qui?"

I miei pensieri depravati e lussuriosi si bloccarono al sentire la sua voce, e rabbrividii. "Ah... Ehm... Io..."

"Che fai, non mi presenti?"

Alzai la testa.

"Scusa, mamma... Harper, questa è mia madre, Patty. Mamma, lei è Harper".

Mi alzai in piedi e feci un sorriso divertito. "Piacere di conoscerla, signora... Ehm... Mamma di Spencer".

Mi resi conto di non sapere come si chiamasse di cognome, e il mio viso si contrasse per l'orrore di aver farfugliato in modo idiota.

Lei mi prese la mano e praticamente sbuffò ridendo.

"Mamma di Spencer? Questa sì che è nuova! Piacere di conoscerti, mi chiamo Patty Marcelo, ma Patty va più che bene. Si dà il caso che io e lo sceriffo abbiamo il figlio migliore del mondo. Porto il suo cognome, ma non siamo sposati, te lo dico prima che lo facciano i pettegolezzi".

"Oh, mi dispiace, è solo che..."

La donna mi fece un occhiolino scherzoso. "Tutto bene, tesoro, lascia perdere. Cosa posso portarti?"

Mi sedetti di nuovo con le guance rosse e mi passai il palmo della mano sul viso. "Ehm, cosa mi consiglia?"

"Prenderà la stessa cosa che prendo io, mamma", tagliò corto lui con uno scatto deciso.

Sua madre gli sorrise amorevolmente. "Due hamburger con tutto e frullati al cioccolato, in arrivo".

"Oh, scusate", interruppi rapidamente, "non sono una fan del cioccolato, avete la banana?"

Entrambi mi guardarono male, lo stesso sguardo che mi rivolgevano tutti quando scoprivano che non amassi particolarmente il cioccolato. "Certo, tesoro, banana sia".

"Perché, non ti piace il cioccolato?" chiese Spencer, incredulo.

"Suppongo... di essere già abbastanza dolce, questo soddisfa abbastanza la tua curiosità?" Lui scosse la testa da una parte all'altra con un sorriso divertito sul volto. Era il primo cenno di umorismo, e mi piacque.

"No, beh, mia madre ha una rarissima allergia alla fava di cacao. È quasi sconosciuta e la maggior parte dei medici professionisti non crede che esista, sostenendo che sia dovuta ad altri ingredienti. È stata molto male, nel tentativo di provarne l'esistenza. Per fortuna non mi è stata trasmessa, ma essendo cresciuta senza cioccolato, non ho mai acquisito un vero e proprio gusto per esso".

"Wow, è una storia strana", commentò lui.

Deglutii il nodo secco in gola. "Sono una persona strana", scrollai le spalle.

"Allora, strana, perché sei qui? Sei in fuga? Dovrei ammanettarti ora, nel caso in cui dovessi darti alla fuga?" Aggrottai la fronte alla sua scelta di parole, l'idea di essere ammanettata non fece nulla per controllare il calore che mi si irradiava dentro.

"Vorrei che la mia vita fosse così eccitante. No, ho perso il lavoro quando la panetteria ha chiuso e non sono riuscita a trovare altro, così mio zio mi ha suggerito di venire qui".

"Da sola?" Era una domanda piuttosto personale. Perché era così indiscreto?

"Perché?"

"Perché te lo chiedo? O non vuoi dirlo?"

"Perché me lo chiedi?"

"Curiosità. Questa non è esattamente una città entusiasmante".

"Mi rifiuto di affidarmi all'assistenza sociale per sopravvivere. Entusiasmante non era esattamente quello che cercavo, più che altro... stabilità finanziaria".

"Quindi, ti sei trasferita qui da sola?"

"No, non da sola". Eccolo lì, il momento in cui tutti gli uomini corrono ai ripari: "Ho un figlio di sette anni".

Spencer annuì lentamente, come se avesse digerito attentamente le mie parole. Da un momento all'altro avrebbe ricevuto una "chiamata d'emergenza" o si sarebbe ricordato di una "riunione di lavoro" a cui doveva andare. "Bene, hai un figlio. E il padre?"

Non mi aspettavo quella domanda. "Eh? Ha abbandonato la nave nel momento in cui ho scoperto di essere incinta", risposi lentamente, cercando di capire perché Spencer non se la fosse ancora filata.

"Quindi sei stata sola per sette anni?" Il suo tono indicava sorpresa.

Mi voltai inorridita, notando l'insegna del bagno. Sì, ero stata sola per sette anni. Essere una mamma con un bambino non faceva certo fare la fila agli uomini per avere il mio numero.

"Scusa". Mi allontanai, incapace di incrociare il suo sguardo, e mi diressi verso i bagni, cercando di recuperare la mia compostezza nel vedere la mia vita privata esaminata in modo così discutibile da qualcuno che avevo appena conosciuto.

Non era esattamente la mia idea di divertimento. Avrei voluto che le cose fossero andate diversamente con il padre di Levi? Certo, ma non era stato nei miei piani.

Mi ero rassegnata a guardare l'amore dallo sfondo, invece di viverlo in prima persona. Credo che mi andasse bene così, purché Leivon fosse felice e potesse vivere una vita piena d'amore.

Tornai poco dopo, ancora incapace di guardarlo negli occhi. Quando mi sedetti, il cibo e le bevande ci stavano aspettando. "Sembra delizioso", borbottai, più al cibo che a lui.

Spencer si avvicinò e mi prese una mano, facendo scorrere il pollice sulle nocche. Le scintille che si sprigionarono sulla mia pelle al suo contatto così intimo furono paralizzanti.

"Mi dispiace per il mio comportamento, le domande mi escono dalla bocca quando cerco di capire qualcuno, è il mio lavoro". Davanti a quelle parole, mi si rizzarono i peli sulla nuca.

Finalmente alzai lo sguardo e incontrai la sua fronte aggrottata. "No, dispiace a me". Ritrassi la mano sentendomi in imbarazzo e a disagio per come il mio corpo rispondeva in modo così lussurioso a lui.

"Capisco di non aver fatto molto, nella mia vita, essendo diventata mamma a diciassette anni non c'erano molte opzioni aperte e sì, sono stata sola per molto tempo, crescendo mio figlio, e i pochi uomini con cui sono uscita, al solo sentir parlare di un bambino, sono scappati il più velocemente possibile.

Non sono una persona che ha bisogno di essere scoperta, sono noiosa, mio figlio viene prima di tutto e garantire la sua felicità e il suo futuro è la cosa più importante al mondo per me. Non sono abituata alle persone che mi fanno domande personali, soprattutto quelle che ho conosciuto solo pochi minuti prima".

"Lo capisco, anche se vorrei dire che penso che tu sia ammirevole e che dimostri chiaramente di aver sacrificato molto per tuo figlio. D'ora in poi sarò più rispettoso della tua vita privata. È un po' difficile abbandonare il ruolo di vice sceriffo".

Mi rivolse un sorriso tirato. "Nuovo argomento: cosa fai per divertirti?"

Passammo i successivi trenta minuti a parlare e ridere di altri argomenti. Aveva una risata incantevole. Era bello avere qualcuno con cui parlare, anche se non si trattava di discorsi sostanziali.

Spencer mi accompagnò anche al lavoro; quando arrivammo, suo padre era ancora lì. "Beh, grazie per il pranzo", dissi timidamente.

"È stato un piacere; spero che potremo rifarlo, qualche volta". Il mio cuore si accese. Era bellissimo. Speravo segretamente che ci saremmo incontrati di nuovo, anche se ne dubitavo fortemente.

Non avevo nulla da offrire a un uomo, soprattutto uno incredibilmente sexy come lui. Tornai al magazzino e continuai a disimballare, prezzare e mettere via gli oggetti.

Arrivai a casa poco prima delle sei e trovai zio Clade e Levi in cucina, intenti a preparare la tavola. "Ehi voi due, com'è andata la giornata?"

"Mamma", strillò Levi, con le sue piccole braccia che mi avvolgevano i fianchi.

Quella sera, mentre leggevamo la favola della buonanotte, mi accorsi che si era addormentato prima che potessimo finire. Povero mostriciattolo, sembrava che la scuola lo avesse davvero stancato.

Gli diedi un bacio sulla fronte e poi spensi la luce. Lo zio era nella sua poltrona reclinabile in pelle scamosciata, a guardare la TV con una birra in mano. "Ehi, vuoi fare qualcosa di divertente, il prossimo weekend?"

Lo guardai con sospetto. "Oh sì, che cosa?"

"Facciamo un barbecue? Inviteremo un po' di gente".

"Ok, mi sembra una buona idea. Mi darà la possibilità di farmi qualche amico". Avrei voluto incontrare di nuovo Spencer, per poterlo invitare al barbecue. Accidenti, non avrei dovuto seguire quella scia di pensieri.

"Com'è andata al lavoro?"

Sorrisi. "Bene, credo che qui siano tutti molto cordiali".

"Questo non ha niente a che fare con il nostro agente Spencer e il vostro appuntamento improvvisato a pranzo, vero?" Afferrai il cuscino del divano e lo scagliai nella sua direzione.

"Tu cosa ne sai? Era solo... amichevole".

"Sì, amichevole". Zio Clade alzò gli occhi al cielo.

"Lo sono stati tutti..."

"Amichevoli?"

"Sì, accoglienti, felici, premurosi e..."

Si intromise: "Ho capito, ho capito..." Alzò le mani in segno di difesa. "Amichevoli".

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